lunedì 29 luglio 2013

Break down the wall


Sabato mi è capitato di ascoltare una trasmissione di Radio24 che raccontava del moltiplicarsi di muri e barriere divisorie fra stati confinanti o spesso anche tra due aree di una stessa città (la parte povera dalla parte ricca o tra zone appartenenti a etnie e religioni diverse). Il diffondersi di tali divisioni in epoca contemporanea è stata analizzata dalla scrittrice Wendy Brown nel libro Stati murati, sovranità in declino, edito da Laterza (vedi http://www.radio24.ilsole24ore.com/notizie/luogo-lontano/2013-07-26/wendy-brown-sempre-muri-104657.php).
I muri sorgono dappertutto: molti in Medio Oriente, il più famoso è quello tra Israele e Palestina, ma ce n’è anche uno tra Iraq e Kuwait, tra Iran e Afghanistan, e ne sorgerà presto uno tra Iran e Pakistan con lo scopo di bloccare il traffico di droga. In Africa c’è un muro tra Botswana e Zimbawe, sorto ufficialmente per evitare la diffusione di virus bovini… e in America c’è quello tristemente famoso tra Messico e U.S.A., dove moltissimi immigrati clandestini hanno trovato la morte. Non mancano nemmeno muri europei: tra Grecia e Turchia, in Spagna, per bloccare l’immigrazione dal Nord Africa e nell’Irlanda del Nord dove sembra che cattolici e protestanti non riescano proprio a convivere. E questi sono solo alcuni esempi.
Secondo Wendy Brown i muri non servono mai allo scopo divisorio-difensivo per cui nascono, ma finiscono unicamente per rafforzare il nazionalismo, identificare meglio il nemico. In tal modo però il muro finisce anche per diventare un’arma a doppio taglio perché ciò che c’è dentro diventa pericoloso quanto ciò che c’è fuori. Questo concetto mi ha fatto ripensare al film di Rodrigo Plà, La zona, ambientato a Città del Messico, che mostra gli effetti collaterali delle Gated Community, comunità di ricchi che si auto-murano all’interno di una cittadella ideale in cui il povero, il disadattato, il criminale, non possono trovare posto, salvo poi trasformarsi essi stessi in criminali per difendere il proprio Eden privato.
A Rio de Janeiro, dove il papa nei giorni scorsi è stato in visita per la GMG, è in progetto un muro che dovrebbe separare tredici favelas dalla città; il motivo ufficiale è quello di limitare la deforestazione, ma la deforestazione da parte delle multinazionali è una delle cause del trasferimento della popolazione dalle campagne alla città, che non riuscendo ad adattarsi al costo della vita per loro proibitivo, finiscono inevitabilmente per allargare le favelas. 
Alla faccia delle teorie che vedono il mondo di oggi come un villaggio globale! Ci si illude che i moderni mezzi di comunicazione abbiano unito il mondo, ma a sono solo “connessioni virtuali” che ci fanno sembrare di essere vicino all’altro, anche quando questo è dall’altra parte del mondo, e magari non siamo capaci di scambiare un saluto “reale” col nostro vicino di casa!
Se è palese che costruire un muro non serve a risolvere il problema dei traffici illegali e dell’immigrazione clandestina, possibile che questi muri continuino a sorgere come funghi? È chiaro che il muro non è altro che un palliativo a problemi come miseria e disoccupazione che andrebbero analizzati e risolti alla radice.
I governi che costruiscono muri ripiegano su soluzioni dal forte impatto scenografico per dare un’idea di forza e di sicurezza s che in realtà sono solo apparenti.
È di questi giorni la notizia che un Paese sognato da molti abbia pensato a una soluzione alternativa alla costruzione di un muro per fermare l’immigrazione clandestina…parlo dell’Australia, un Paese quasi completamente formato da immigrati, che adesso si è stancato di accogliere tutti e ha pensato bene che, investendo un po’ di denaro, i clandestini potevano essere dirottati verso un’isola vicina, Papua Nuova Guinea, per una vacanza tropicale in attesa di rimpatrio! Che tristezza! In fondo anche questo non è come nascondersi dietro a un muro? Deviare il problema non equivale a cancellarlo, equivale solo a non volerlo guardare e, non vedendolo, si può fingere che non esista.
I muri dunque non sono fatti solo di pietre, mattoni o cemento armato, ma sono fatti di idee, parole, pregiudizi, paure…

Sto lavorando a un progetto che affronti il concetto di “muro” inteso nelle sue diverse 
accezioni; Chiedo a chiunque voglia aiutarmi di inviare a questo indirizzo mail chia.makestayad@gmail.com un messaggio che racconti in poche parole cosa per voi costituisce un “muro” nella vostra esperienza di vita o nella società e che scriveste anche una possibile soluzione per abbattere questo muro.
Il messaggio dovrà strutturarsi in questo modo: Nella prima parte si scriverà: IL MURO È (aggiungere quindi che cosa è muro per noi o un tipo di muro che vediamo nella società).     
Nella seconda parte si scriverà UN MODO PER ABBATTERLO PUÓ ESSERE (aggiungere quindi la proposta di soluzione).
Non cerco ovviamente soluzioni geniali a problemi capitali: ciò che conta e che ognuno dedichi un po' di tempo a riflettere per cercare di trovare i propri muri personali o quelli globali...in fondo il saper riconoscere l'esistenza di un muro e già di per sè un passo verso il suo abbattimento. 
Io m’impegno a raccogliere tutti i vostri pensieri. Come si evolverà il lavoro dipenderà soprattutto da voi…nei prossimi mesi terrò un aggiornamento sul blog http://www.a-dirondella.blogspot.it/ . Per favore, diffondete il messaggio a più persone possibili. La raccolta dei messaggi dovrebbe durare circa un anno e in seguito concretizzarsi in una performance.
Conto su di voi! Grazie a tutti quelli che risponderanno a questo appello!

Chiara


Saturday, I listened to a broadcast of Radio24 telling about the proliferation of walls between neighboring states or often even between two areas of a city (the poor from the rich or between areas belonging to different ethnicities and 
religions). The spread of these divisions in contemporary 
times was analyzed by the writer Wendy Brown in the book Walled States, Waning Sovereignty.
The walls are located all over the world, many in the Middle East, the most famous is the one between Israel and Palestine, but there is also a wall between Iraq and Kuwait, another between Iran and Afghanistan, and it will soon be built a wall between Iran and Pakistan to stop drug trafficking. In Africa there is a wall between Botswana and Zimbabwe, built to prevent the diffusion of bovines's viruses ... and in America there is the wall between Mexico and the U.S., where many illegal immigrants find the death. 
There are even walls in Europe: between Greece and Turkey, in Spain, to stop immigration from North Africa and in Northern Ireland. And these are just a few examples.
Wendy Brown says that walls don't ever serve the purpose of division and defense for which they are born, ending only to increase nationalism and to better identify the enemy. The wall very often ends up becoming a double edged sword 
because what's inside becomes dangerous as what's 
outside. This concept made me think back to the movie by Rodrigo Plà, The zone, set in Mexico City, which shows the side effects of Gated Community, a community of wealthy who close themselves an ideal citadel in which the poor, the geek, the criminal can not find a place, only to become criminals themselves in order to defend their own private Eden.
In Rio de Janeiro, visited by the pope in recent days, the government plans to build a wall to separate thirteen favelas from the city: the official reason is to limit the deforestation but the deforestation by multinational companies is one of the causes of the transfer of population from the countryside to the city. These people find impossible to afford the prohibitive cost of city-life, so they inevitably end up widening the favelas.
What about the theory of the global village? There's the illusion that modern medias have united the world, but are only "virtual connections" that make us appear closer to each other, even when they live on the other side of the world, but maybe we are unable to exchange "real" greetings with our neighbor!
If it is clear that building a wall doesn't solve the problem of illegal trafficking and illegal immigration, why these walls continue to rise? It is clear that the wall is no more than a palliative to problems such as poverty and unemployment that should be analyzed and solved at the root.
Governments that build walls fold up solutions with a strong visual impact to give an idea of ​​strength and security that are only apparent.
It's a news of these days that Australia, a country almost completely made up of immigrants, decided to divert illegal immigration to a nearby island, Papua New Guinea, for a tropical vacation awaiting repatriation! How sad! In the end even this is not like hiding behind a wall, is it? Pay Papua to get illegal immigrants isn' t a solution of the problem, it's only a way to turn the head; I don't want to watch, and not seeing the problem, I can pretend it doesn't exist.
Walls are not only made of stone, brick or concrete, but they are made of ideas, words, prejudices, fears ...
I'm working on a project about the concept of "wall" understood in its various meanings. I ask anyone who wants to help me to send ti this e-mail address chia.makestayad@gmail.com a message telling in few words what for you is a "wall" in your experience of life, or in modern society and to write also a possible solution to break down this wall.
The message should be structured in this way: In the first part you will write: THE WALL IS (add then what wall you have in your life or in our society).
In the second part you will write: A WAY TO BREAK DOWN THE WALL COULD BE (then add the proposed solution).
Obviously, every wall would not be such if it was easy to break, so I know that may seem strange to ask to propose solutions, especially to deal with the "walls" in their lives; What I ask is not brilliant ideas, but that everyone spend a moment of reflection to find their own personal walls or worldwide (already recognize the wall, and see it as an obstacle to be removed, is a decisive step); then, reflect on a possible solution, is a way to make this wall less indestructible.
I will collect all your thoughts, that will remain anonymous.
The result of the work will depend on all of you ... in the next months I will keep an update on my blog http://www.a-dirondella.blogspot.it/. Please spread the message to as many people as possible. The collection of messages should last about a year and then will take the form of a performance.
Thanks to all who respond to this appeal!
Chiara

giovedì 25 luglio 2013

55esima Biennale di Venezia



Ovvero...Il Palazzo Enciclopedico.
Il tema dell'esposizione prende spunto della visionaria idea dell'artista italo-americano Marino Auriti, che il 16 novembre 1955 depositò all'ufficio brevetti i progetti di un Palazzo Enciclopedico che avrebbe raccolto tra le sue mura tutto il sapere dell'umanità. Il sogno di un museo universale, su cui Auriti lavorò per anni: un sogno che nei secoli ha accomunato artisti, scienziati, letterati e che nella società odierna, dove la rete ha sostituito le vecchie enciclopedie cartacee e dove la conoscenza ha un'evoluzione rapidissima, ci affascina ancora. 
La Biennale curata da Massimiliano Gioni è strutturata come una Wunderkammer, una camera delle meraviglie che tenta di catalogare il mondo non in maniera esaustiva ma lanciando spunti, prospettive alternative, nuove chiavi di lettura, regole ed eccezioni.
Tra gli artisti scelti anche molti non più giovani o deceduti, spesso artisti di nicchia che sono emersi in maniera lenta, magari dopo anni di lavoro nascosto.

Purtroppo quest’anno la Biennale l’ho dovuta vedere un po’ di corsa (per poi correre a prendere il treno…che ho quasi rischiato di perdere), il che non è l’approccio ideale per un’esposizione come questa, che per apprezzata nella sua complessità, meriterebbe tempo e tranquillità.
Sarà forse per questo motivo che a livello di impatto visivo la Biennale di due anni fa (mi riferisco in particolare al padiglione Italia) mi aveva colpito maggiormente.
Premessa: la 54esima Biennale aveva tante cose criticabili: Nel padiglione italiano erano esposte un’accozzaglia di opere più o meno valide scelte da personaggi più o meno famosi, che riempivano lo spazio dalla terra al soffitto, stile pinacoteca settecentesca; all’ingresso c’era un cartello, con scritte testuali parole: “Se volete capirci qualcosa del padiglione Italia, prendete un’audioguida: 5 euro”…ma quell’anno il curatore era Sgarbi e l’educazione non è certo uno dei suoi punti forti. Per finire, poi, c’era quell' assurdo museo della mafia di cui proprio non ho capito la necessità.
Nonostante ciò, come dicevo, l’impatto visivo dato da tutto quell'accumulo di opere mi aveva colpito e avevo apprezzato molto l’esposizione dei giovani artisti delle accademie d’Italia all’arsenale-nord.
Questo forte impatto visivo-emotivo quest’anno mi è un po’ mancato. Trovo comunque che questo sia consono alle scelte più di nicchia del curatore Massimiliano Gioni che penso abbia svolto egregiamente il suo compito; la sua Biennale è stata molto apprezzata e ha avuto poche critiche negative. L’intera esposizione è stata veramente strutturata con rigore enciclopedico, tanto che ci si potrebbe divertire a dividere le opere per categorie: piante, animali, anatomia, scienza, religione…
Con le prossima galleria fotografica voglio lanciare alcune suggestioni per chi andrà a visitarla nei prossimi mesi. 




And the winner is...Tino Sehgal, con una performance ai Giardini dove una serie di persone comunicano tra loro in uno strano linguaggio fatto di vocalizzi, suoni, canti, movimenti i danza, movimenti lenti o simili a spasmi...tutto sembra avvenire spontaneamente e in modo casuale agli occhi del pubblico, ma in realtà la performance è totalmente orchestrata dalla regia dell'artista.
Francamente mi sfugge un po' il legame tra l'opera e il tema della Biennale...forse che Sehgal abbia voluto creare una sorta di linguaggio che permetta una comunicazione universale? Non credo sia così visto che il visitatore resta stranito di fronte ai performer...Forse questa non è tra le sue opere più riuscite, probabilmente la giuria ha voluto premiare più in generale l'artista, piuttosto che la specifica opera.


Il padiglione vincitore invece è stato quello dell’Angola con Luanda, Encyclopedic City; la curatela è stata affidata all’associazione Beyond Entropy.
Luanda è presa come modello dell’evoluzione rapidissima e spesso a-progettuale delle città dell’Africa sub-sahariana. Altissima densità abitativa, con edifici che si sviluppano per lo più orizzontalmente, mix di condizioni urbane e rurali, mancanza di infrastrutture…ne deriva uno spazio complesso, ricco di contraddizioni e conflittualità, di cui è difficile dare una lettura, organizzare la conoscenza. Il padiglione, attraverso le fotografie di Edson Chagas, si domanda dunque quali modi di conoscenza alternativi si possono utilizzare per decifrare una città come Luanda.






Il mio padiglione preferito: quello russo, con l’opera di Vadim Zakharov Danae. Entrando nel padiglione al centro della prima sala si trovava un secchio che a intervalli regolari veniva sollevato da una corda, fatto passare attraverso un buco e svuotato del suo carico di monete d’oro. In un’altra sala in cui solo le donne potevano entrare “a proprio rischio e pericolo” cadeva una pioggia di monete dorate i “Danae” appunto che le spettatrici potevano raccoglie e gettare nel secchio (tenendo una moneta come souvenir). In una sala superiore un performer vestito elegantemente sedeva a cavallo di una trave e tra un momento di immobilità e l’altro in cui sembrava intento a riflettere su chissà quali importanti questioni, cavalcava e mangiava arachidi gettando a terra i gusci. Sullo sfondo una frase recitava così:
Gentlemen, time has come to confess our Rudness, Lust, Narcissism, Demagouguery, Falsehood, Banality and…
Dovrebbe essere, a una prima osservazione, un’opera femminista, che esalta la donna come produttrice di ricchezza (valori), abbassando il maschio come produttore di nulla, ma in realtà può essere anche un’opera sul funzionamento dell’economia moderna che consiste in un continuo ricircolo di denaro fine a se stesso…ma come mai ciò è associato alla donna visto che questo tipo di economia se la sono inventata gli uomini?






Alberi...


Il Kreupelhout, del padiglione belga è l’albero storto, storpio, nodoso: che non può raddrizzarsi, cresce piegato, da cui di ricavano grucce per coloro che al pari dell’albero sono storpi, piegati.
 I nodi possono essere creati dalla ragione, sono invisibili e possono essere sciolti; ma possono essere anche creati dalla natura: questi sono visibili e irrecuperabili, non si possono sciogliere.
La parola kruepel significa storpio ed è una parola rifiutata, sordida, che viene confinata nei luoghi che la rappresentano, ma che inevitabilmente si insinua con i suoi rami nodosi nel nostro presente solo in apparenza terso.
L’albero è completamente realizzato con la cera e inserti di frammenti lignei.





 L’albero-pendolo di Kriìs Salmanis serve da testimone dell’invisibile, traccia dell’annaspare disperato di una piccola Nazione, obliterata dai tassi di disoccupazione cavalcanti e dall’emigrazione massiccia della propria forza-lavoro, nell’irreversibilità di una crisi economico-identitaria. La rimozione del singolo albero diviene emblema del colossale abbattimento di intere foreste, in Lettonia, ove le cicatrici lasciate dal taglio indiscriminato sfigurano e deformano il paesaggio rurale – che, nella sua forma originaria, fu elemento fondante nella costruzione dell’identità nazionale lettone a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Viste sublimi di foreste furono, tra le altre cose, segni distintivi dei dipinti di Vilhelms Purvitis: artista fondamentale nella cultura lettone dell’epoca e fondatore dell’ Accademia d’ Arte di Lettonia.


Da Alise Tifental, Just what is it that makes Latvian art so different, so Latvian?                                                                                                                                                             In “North by Northeast”, catalogo, p. 18


I bellissimi disegni di Patrick van Caeckenbergh




Gli alberi ricostruiti del padiglione finlandese...






Gli “sgabelli volanti” del padiglione tedesco...





I magnifici piccoli quadri di Ellen Altfest che rappresentano parti del corpo maschile con uno stile pittorico iperrealista per cui per dipingere una superficie di pochi centimetri l’artista può impiegare anche quindici mesi.










Gli ex-voto del santuario di Poggibonsi: teste, braccia, gambe, le diverse parti del corpo per cui si chiedeva o si otteneva la grazia di una guarigione.







Le sculture di Sawada Shinichi, artista affetto da autismo che trova nella scultura un suo peculiare modo di comunicare con gli altri.




Il divertente Photo Safari di Vladimir Peric





Una raccolta di foto di bimbi molto piccoli dove le madri sono presenti ma sempre nascoste: da un telo che le copre totalmente camuffandole da “poltrone” su cui siedono i bambini ritratti o mostrando solo un braccio che regge il piccolo.





Abbiamo anche avuto la fortuna di vedere l’intervento di Marco Paolini nell’ambito del suo progetto artistico Fèn (fieno). L’attore ha raccontato storie legate al lavoro artigianale, alla raccolta del fieno nelle “mete”, al terremoto del Friuli, a quello dell’Aquila e alla vita dei fratelli Cervi, cui fa riferimento l'opera esposta nel Giardino delle Vergini: un covone che riproduce un mezzo mappamondo su cui si inerpica un piccolo trattore realizzato con materiali di recupero e altri strumenti di lavoro tipici del mondo agricolo e operaio. I fratelli Cervi sono ricordati nell’opera non come partigiani ma come agricoltori: il padre prima della guerra acquistò un trattore e vi legò sopra un mappamondo per insegnare ai figli che il loro compito era di lavorare la propria parte di terreno ma che essi non erano che un puntino nel mondo.
Il pubblico era invitato a legare un ciuffo di fieno dal proprio territorio e anche noi abbiamo dato il nostro contributo da Seriate…







Il muro di mattoni trasparenti di Shu Yong su cui sono stati trascritti 1500 slogan, parole, massime, motti popolari tra la società e nel mondo di internet e attraverso il Google-translate sono state tradotte in inglese. Il nome dei mattoni è Guge briks: guge e Google sono parole dalla pronuncia simile; L’esperienza di Google China è stato un interessante fenomeno che mostra la differenza di concezione tra diverse culture, tanto che le traduzioni letterali non riescono a riprodurre in inglese il vero senso delle frasi cinesi. Questo muro rimanda dunque hai muri di differenze culturali che si costruiscono tra diversi paesi e in particolare tra Oriente e Occidente, muri che il più delle volte nascono proprio a causa delle incomprensioni e dell'incomunicabilità.




Da un muro di 1500 mattoni trasparenti a un pavimento di 10.000 mattoni di argilla proveniente dalle zone alluvionate del Polesine; Elisabetta Benassi crea un pavimento dissestato dove ogni mattone risulta marchiato con codici e nomi usati per catalogare i più grandi detriti spaziali che orbitano attorno al nostro pianeta. Il titolo dell’opera The Dry Salvages rimanda allo scritto di T.S. Eliot e unisce un manufatto arcaico e artigianale a un elemento cosmico rimandando al trascorrere inesorabile del tempo, al potere catastrofico della natura e alla possibile catastrofe a cui potrebbero portare le missioni spaziali che si sono conseguite a ritmo incalzante negli ultimi cinquant’anni.

L’essenziale è invisibile agli occhi si legge nel Piccolo Principe, e in questo caso è l’opera stessa a diventare invisibile perché l’opera di Luca Vitone altro non è che un’essenza, o più precisamente una scultura acromatica monolfattiva su tre note: nota di testa, rabarbaro svizzero essenza, nota di cuore, assoluta di rabarbaro belga e nota di fondo, rabarbaro essenza Francia.
L’idea originale di Vitone era di portare a Venezia un oggetto di eternit bonificato, ma non è stato possibile così si è sempre più fatta strada l’idea di lavorare sulla trascurata dimensione olfattiva che è anche la continuazione naturale delle sue ricerche sul monocromo e l’acromatico.
La cosa particolare di un’opera del genere è che finché lo spettatore non si imbatte per caso nel pannello esplicativo non sa che sta “fruendo” un’opera d’arte; si sente solo questo forte odore che dà l’idea di qualcosa di tossico, che fa pensare a qualche disguido, ai fumi chimici prodotti dalle fabbriche che hanno mietuto vittime in passato (amianto) e ancora oggi (vedi la questione dell’ILVA di Taranto).



Con l'opera Apollo's Ecstasy la Biennale ha celebrato il land-artist Walter De Maria, morto il 25 luglio scorso. La muta presenza e la purezza geometrica di trenta cilindri d'ottone per combattere il rumore bianco dell'informazione.




L' uovo ha una forma perfetta pur essendo fatto col culo (B. Munari)