Ovvero...Il Palazzo Enciclopedico.
Il tema dell'esposizione prende spunto della visionaria idea dell'artista italo-americano Marino Auriti, che il 16 novembre 1955 depositò all'ufficio brevetti i progetti di un Palazzo Enciclopedico che avrebbe raccolto tra le sue mura tutto il sapere dell'umanità. Il sogno di un museo universale, su cui Auriti lavorò per anni: un sogno che nei secoli ha accomunato artisti, scienziati, letterati e che nella società odierna, dove la rete ha sostituito le vecchie enciclopedie cartacee e dove la conoscenza ha un'evoluzione rapidissima, ci affascina ancora.
La Biennale curata da Massimiliano Gioni è strutturata come una Wunderkammer, una camera delle meraviglie che tenta di catalogare il mondo non in maniera esaustiva ma lanciando spunti, prospettive alternative, nuove chiavi di lettura, regole ed eccezioni.
Tra gli artisti scelti anche molti non più giovani o deceduti, spesso artisti di nicchia che sono emersi in maniera lenta, magari dopo anni di lavoro nascosto.
Purtroppo quest’anno la Biennale l’ho dovuta vedere un po’
di corsa (per poi correre a prendere il treno…che ho quasi rischiato di
perdere), il che non è l’approccio ideale per un’esposizione come questa, che
per apprezzata nella sua complessità, meriterebbe tempo e
tranquillità.
Sarà forse per questo motivo che a livello di impatto visivo
la Biennale di due anni fa (mi riferisco in particolare al padiglione Italia) mi aveva colpito maggiormente.
Premessa: la 54esima Biennale aveva tante cose criticabili:
Nel padiglione italiano erano esposte un’accozzaglia di opere più o meno valide
scelte da personaggi più o meno famosi, che riempivano lo spazio dalla terra al
soffitto, stile pinacoteca settecentesca; all’ingresso c’era un cartello, con scritte testuali parole: “Se volete capirci qualcosa del
padiglione Italia, prendete un’audioguida: 5 euro”…ma quell’anno il curatore era
Sgarbi e l’educazione non è certo uno dei suoi punti forti. Per finire, poi, c’era
quell' assurdo museo della mafia di cui proprio non ho capito la necessità.
Nonostante ciò, come dicevo, l’impatto visivo dato da tutto quell'accumulo di opere mi aveva colpito e avevo apprezzato molto l’esposizione
dei giovani artisti delle accademie d’Italia all’arsenale-nord.
Questo forte impatto visivo-emotivo quest’anno mi è un po’
mancato. Trovo comunque che questo sia consono alle scelte più di nicchia del curatore Massimiliano Gioni che penso abbia svolto egregiamente il suo compito;
la sua Biennale è stata molto apprezzata e ha avuto poche critiche negative. L’intera
esposizione è stata veramente strutturata con rigore enciclopedico, tanto che
ci si potrebbe divertire a dividere le opere per categorie: piante, animali,
anatomia, scienza, religione…
Con le prossima galleria fotografica voglio lanciare alcune suggestioni per chi andrà a visitarla nei prossimi mesi.
And the winner is...Tino Sehgal, con una performance ai Giardini dove una serie di persone comunicano tra loro in uno strano linguaggio fatto di vocalizzi, suoni, canti, movimenti i danza, movimenti lenti o simili a spasmi...tutto sembra avvenire spontaneamente e in modo casuale agli occhi del pubblico, ma in realtà la performance è totalmente orchestrata dalla regia dell'artista.
Francamente mi sfugge un po' il legame tra l'opera e il tema della Biennale...forse che Sehgal abbia voluto creare una sorta di linguaggio che permetta una comunicazione universale? Non credo sia così visto che il visitatore resta stranito di fronte ai performer...Forse questa non è tra le sue opere più riuscite, probabilmente la giuria ha voluto premiare più in generale l'artista, piuttosto che la specifica opera.
Il padiglione vincitore invece è stato quello dell’Angola
con Luanda, Encyclopedic City; la curatela è stata affidata all’associazione
Beyond Entropy.
Luanda è presa come modello dell’evoluzione rapidissima e
spesso a-progettuale delle città dell’Africa sub-sahariana. Altissima densità
abitativa, con edifici che si sviluppano per lo più orizzontalmente, mix di
condizioni urbane e rurali, mancanza di infrastrutture…ne deriva uno spazio
complesso, ricco di contraddizioni e conflittualità, di cui è difficile dare
una lettura, organizzare la conoscenza. Il padiglione, attraverso le fotografie
di Edson Chagas, si domanda dunque quali modi di conoscenza alternativi si
possono utilizzare per decifrare una città come Luanda.
Il mio padiglione preferito: quello russo, con l’opera di
Vadim Zakharov Danae. Entrando nel
padiglione al centro della prima sala si trovava un secchio che a intervalli
regolari veniva sollevato da una corda, fatto passare attraverso un buco e
svuotato del suo carico di monete d’oro. In un’altra sala in cui solo le donne
potevano entrare “a proprio rischio e pericolo” cadeva una pioggia di monete dorate
i “Danae” appunto che le spettatrici potevano raccoglie e gettare nel secchio
(tenendo una moneta come souvenir). In una sala superiore un performer vestito
elegantemente sedeva a cavallo di una trave e tra un momento di immobilità e
l’altro in cui sembrava intento a riflettere su chissà quali importanti
questioni, cavalcava e mangiava arachidi gettando a terra i gusci. Sullo sfondo
una frase recitava così:
Gentlemen, time has
come to confess our Rudness, Lust, Narcissism, Demagouguery, Falsehood, Banality
and…
Dovrebbe essere, a una prima osservazione, un’opera femminista, che esalta la donna come produttrice di ricchezza (valori), abbassando il
maschio come produttore di nulla, ma in realtà può essere anche un’opera sul
funzionamento dell’economia moderna che consiste in un continuo ricircolo di
denaro fine a se stesso…ma come mai ciò è associato alla donna visto che questo
tipo di economia se la sono inventata gli uomini?
Alberi...
Il Kreupelhout, del
padiglione belga è l’albero storto, storpio, nodoso: che non può raddrizzarsi,
cresce piegato, da cui di ricavano grucce per coloro che al pari dell’albero
sono storpi, piegati.
I nodi possono
essere creati dalla ragione, sono invisibili e possono essere sciolti; ma
possono essere anche creati dalla natura: questi sono visibili e
irrecuperabili, non si possono sciogliere.
La parola kruepel significa
storpio ed è una parola rifiutata, sordida, che viene confinata nei luoghi che
la rappresentano, ma che inevitabilmente si insinua con i suoi rami nodosi nel
nostro presente solo in apparenza terso.
L’albero è completamente realizzato con la cera e inserti di
frammenti lignei.
Da Alise Tifental, Just
what is it that makes Latvian art so different, so Latvian?
In
“North by Northeast”, catalogo, p. 18
I bellissimi disegni di Patrick van Caeckenbergh
Gli alberi ricostruiti del padiglione finlandese...
Gli “sgabelli volanti” del padiglione tedesco...
I magnifici piccoli quadri di Ellen Altfest che rappresentano
parti del corpo maschile con uno stile pittorico iperrealista per cui per
dipingere una superficie di pochi centimetri l’artista può impiegare anche
quindici mesi.
Gli ex-voto del santuario di Poggibonsi: teste, braccia,
gambe, le diverse parti del corpo per cui si chiedeva o si otteneva la grazia
di una guarigione.
Le sculture di Sawada Shinichi, artista affetto da autismo
che trova nella scultura un suo peculiare modo di comunicare con gli altri.
Il divertente Photo
Safari di Vladimir Peric
Una raccolta di foto di bimbi molto piccoli dove le madri
sono presenti ma sempre nascoste: da un telo che le copre totalmente
camuffandole da “poltrone” su cui siedono i bambini ritratti o mostrando solo
un braccio che regge il piccolo.
Abbiamo anche avuto la fortuna di vedere l’intervento di
Marco Paolini nell’ambito del suo progetto artistico Fèn (fieno). L’attore ha raccontato storie legate al lavoro
artigianale, alla raccolta del fieno nelle “mete”, al terremoto del Friuli, a quello dell’Aquila e
alla vita dei fratelli Cervi, cui fa riferimento l'opera esposta nel Giardino delle Vergini: un
covone che riproduce un mezzo mappamondo su cui si inerpica un piccolo trattore
realizzato con materiali di recupero e altri strumenti di lavoro tipici del
mondo agricolo e operaio. I fratelli Cervi sono ricordati nell’opera non come
partigiani ma come agricoltori: il padre prima della guerra acquistò un
trattore e vi legò sopra un mappamondo per insegnare ai figli che il loro
compito era di lavorare la propria parte di terreno ma che essi non erano che
un puntino nel mondo.
Il pubblico era invitato a legare un ciuffo di fieno dal
proprio territorio e anche noi abbiamo dato il nostro contributo da Seriate…
Il muro di mattoni trasparenti di Shu Yong su cui sono stati
trascritti 1500 slogan, parole, massime, motti popolari tra la società e nel
mondo di internet e attraverso il Google-translate sono state tradotte in
inglese. Il nome dei mattoni è Guge briks: guge e Google sono parole dalla
pronuncia simile; L’esperienza di Google China è stato un interessante fenomeno
che mostra la differenza di concezione tra diverse culture, tanto che le
traduzioni letterali non riescono a riprodurre in inglese il vero senso delle
frasi cinesi. Questo muro rimanda dunque hai muri di differenze culturali che
si costruiscono tra diversi paesi e in particolare tra Oriente e Occidente,
muri che il più delle volte nascono proprio a causa delle incomprensioni e dell'incomunicabilità.
Da un muro di 1500 mattoni trasparenti a un pavimento di
10.000 mattoni di argilla proveniente dalle zone alluvionate del Polesine;
Elisabetta Benassi crea un pavimento dissestato dove ogni mattone risulta
marchiato con codici e nomi usati per catalogare i più grandi detriti spaziali
che orbitano attorno al nostro pianeta. Il titolo dell’opera The Dry Salvages rimanda allo scritto di
T.S. Eliot e unisce un manufatto arcaico e artigianale a un elemento cosmico
rimandando al trascorrere inesorabile del tempo, al potere catastrofico della
natura e alla possibile catastrofe a cui potrebbero portare le missioni
spaziali che si sono conseguite a ritmo incalzante negli ultimi cinquant’anni.
L’essenziale è
invisibile agli occhi si legge nel Piccolo
Principe, e in questo caso è l’opera stessa a diventare invisibile perché
l’opera di Luca Vitone altro non è che un’essenza, o più precisamente una
scultura acromatica monolfattiva su tre note: nota di testa, rabarbaro svizzero
essenza, nota di cuore, assoluta di rabarbaro belga e nota di fondo, rabarbaro
essenza Francia.
L’idea originale di Vitone era di portare a Venezia un
oggetto di eternit bonificato, ma non è stato possibile così si è sempre più
fatta strada l’idea di lavorare sulla trascurata dimensione olfattiva che è
anche la continuazione naturale delle sue ricerche sul monocromo e
l’acromatico.
La cosa particolare di un’opera del genere è che finché lo
spettatore non si imbatte per caso nel pannello esplicativo non sa che sta “fruendo”
un’opera d’arte; si sente solo questo forte odore che dà l’idea di qualcosa di
tossico, che fa pensare a qualche disguido, ai fumi chimici prodotti dalle
fabbriche che hanno mietuto vittime in passato (amianto) e ancora oggi (vedi la
questione dell’ILVA di Taranto).
Nessun commento:
Posta un commento