L’opera dell’artista Kader Attia sono state esposte fino al 25 agosto
scorso alla Kunst-Werke di Berlino.
Kader Attia nasce nel 1970 nei sobborghi parigini di
Seine-Saint-Denis da famiglia algerina.
Trascorre l’infanzia tra la Francia e l’Algeria, formandosi in un mix di
cultura francese, del Maghreb islamico e degli ebrei Sefarditi algerini. I conflitti
inter-culturali vissuti
dall’artista fin da piccolo e gli anni trascorsi in Congo, in Venezuela e
Algeria sono elementi costanti nella sua ricerca.
In particolare, il lavoro di Attia sul tema della “riparazione” ha avuto
inizio nel 1998, con il ritrovamento, da parte dell’artista, in Congo, di un
tessuto tradizionale in rafia, rattoppato con stoffa di Vichy. Colpito
dall’insolito accostamento, si mise alla ricerca, negli archivi dei musei di
tutto il mondo, di pezzi che avessero la caratteristica di essersi “ibridati”
attraverso una riparazione: come per esempio una maschera africana conservata
allo Smithsonian di Washington, che, avendo perso un occhio in origine fatto
con una conchiglia, era stato rimpiazzato da una moneta da 1$.
Nel 2012 a Documenta, l’artista franco algerino presentò i primi frutti
della sua ricerca nella mostra The Repair,
dove accostava oggetti riparati con elementi di culture “altre”, a immagini di
soldati gravemente mutilati nel corso della Prima Guerra Mondiale, anch’essi
“riparati” nel limite del possibile per la chirurgia dell’epoca.
Le cuciture sui volti delle maschere finiscono per somigliare
tragicamente ai grotteschi volti dei soldati sfigurati.
La riparazione dunque è appropriazione
ma nello stesso tempo risarcimento,
in riferimento al tentativo di ridare un volto ai soldati feriti.
Se nella mostra di Kassel Attia insisteva di più sull’aspetto della
riparazione come appropriazione culturale e tentativo di risarcimento, nella
mostra di Berlino il significato slitta verso il concetto di ri-appropriazione.
Lo sguardo dell’artista stavolta si concentra soprattutto sugli
interventi di modificazione corporale diffusi da millenni in molte culture
(inclusa l’attuale civiltà occidentale in cui la chirurgia plastica viene usata
per omologarsi a modelli di bellezza sovraimposti). Attia interpreta tali
interventi come segni di un legame sociale tra membri di un gruppo: l’iniziato
deve subire queste modifiche per potersi collocare a pieno titolo nella
società. Si ripara dunque a una differenza, per rafforzare i legami attraverso
un segno artificiale di uguaglianza.
…Non è forse tutto ciò rapportabile anche al senso di operare i soldati
sfigurati? Riparare il loro volto mostruoso per permettere il loro
reinserimento nella società.
Le fotografie raccolte da Kader Attia lasciano scioccati e commossi e
viene da chiedersi che storie possano nascondersi dietro agli occhi tristi di
quei soldati, quali prospettive di vita futura, quali difficoltà nel compiere
anche le più semplici azioni quotidiane, quale sofferenza nel leggere terrore e
compassione negli sguardi degli altri.
Le immagini di Attia sono, forse involontariamente, anche un grido contro
la guerra quale ingiustificata e ingiustificabile violenza tra gli uomini, che
non crea danni solo sul breve, ma anche e soprattutto sul lungo termine.
In questi giorni venti di guerra soffiano nel Medioriente: già moltissime
sono state le vittime delle rivolte in Paesi come la Siria o l’Egitto e ora si
aggiunge la paura da parte dei civili delle bombe che potrebbero giungere dagli
Stati Uniti.
Per noi la guerra è qualcosa di lontano temporalmente e spazialmente; io
personalmente non riesco nemmeno a immaginare la paura che si può provare a
sentir suonare le sirene che annunciano i bombardamenti e la paura ancor più
forte di dover combattere al fronte, di sparare ad altri uomini, di vedere
morire i tuoi compagni e sapere che il prossimo potresti essere tu.
Tre anni fa, dopo la morte un uno zio di mia madre, abbiamo ritrovato la
sua cassetta militare, dove teneva i ricordi della Seconda Guerra Mondiale e
della sua prigionia in Libia.
Lo zio restò prigioniero per diversi mesi e al suo ritorno a casa non
aveva più nulla se non i logori abiti da soldato che indossava.
Lui non ha mai parlato con nessuno della sua prigionia, e io me lo sono
chiesta tante volte: come dev’essere finire prigionieri di persone che non
capiscono la tua lingua e che tu non capisci? Come dev’essere tornare a casa un
giorno e scoprire che la tua famiglia a dato via i pochi vestiti che avevi
perché credevano che non saresti più tornato? E come dev’essere portarsi
nell’anima le ferite della guerra e non parlarne a nessuno perché non ci sono
parole che possano esprimere questo dolore e perché ricordare rende reale
qualcosa che sembra impossibile che possa accadere davvero.
Mio zio riparava le cose; le cuciture sul volto delle maschere trovate da
Attia mi hanno ricordato i rammendi sui suoi abiti da lavoro. Tra i suoi pochi
oggetti da prigioniero c’era un rocchetto di filo. Mio zio riparava le cose
riparabili perché sapeva che ci sono rotture più profonde e nascoste che non si
possono ricucire.
Non c’è vera riparazione per chi torna della guerra, solo tentativi
malriusciti come quelli sui volti dei soldati nelle fotografie della mostra di
Attia.
Dalle ferite interiori della guerra ci si può solo “riparare” nel senso
di “nascondersi”, “trovare riparo”, ricacciando il dolore nel profondo perché
nessuno di quelli che amiamo possano conoscerlo e perché noi stessi possiamo
evitare di guardarlo in faccia.
La guerra è lontana da noi, ma noi non dobbiamo dimenticarla, non per
esaltarne i valori, come vorrebbe ancora fare qualcuno, per ricordarci sempre
del valore della pace.
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